Qual è l'immagine dell'Italia che vorremmo arrivasse ai nostri figli oppure all'estero? Quella della fornaia di Lampedusa che da giorni regala pizze e cannoli ai tunisini rimasti senza cibo? Oppure quella dell'invettiva Fora da i ball di Umberto Bossi?
Più che retoriche, inutili. Alla grande maggioranza degli italiani poco importa di quanto accade su un'isoletta che da Milano è più lontana di Londra. Oggi come mai vale, per loro, l'acronimo inglese Nimby, Not in my backyard: i tunisini e le centrali nucleari, i rifiuti e i pentiti di mafia metteteli dove vi pare, basta che non sia il cortile di casa mia. Di questo dovremmo preoccuparci. Dell'egoismo e della scarsa memoria. Tra il 1880 e il 1915 nove milioni di italiani s'imbarcarono per cercare fortuna in Argentina, in Brasile, negli Stati Uniti. Si calcola che appena un terzo ritornò, sfinito dallo sfruttamento e dalle persecuzioni.
Nella sola Europa - soprattutto in Francia Svizzera, Germania, Belgio, Gran Bretagna - i discendenti di italiani sono oggi almeno dieci milioni, e i loro padri e nonni furono trattati come subumani mandati a morire nelle miniere e sulle impalcature: vi ricorda qualcosa? Anche Cassano Magnago, nel Varesotto, dov'è cresciuto Bossi, è terra di emigrazione. All'inizio del Novecento migliaia di giovani, donne e famiglie furono costretti dalla fame a lasciare quel paese e raggiungere le Americhe. I registri di Ellis Island, la porta d'ingresso degli immigrati europei negli Stati Uniti, ci sono i nomi di 399 Bossi, la maggioranza del Nord Italia (non si chiamava Padania), lombardi di Busto Arsizio, di Samarate, di Gallarate, di Cuggiono, di Stradella e proprio di Cassano Magnago, e poi piemontesi di Tortona e Alessandria, emiliani, liguri e friulani. Molti anche i Bossi del Centro e del Sud, di Fossombrone, Pratola Peligna e Senigallia, di Caserta, Benevento, Roccabascerana e Castelvetrano.
I solerti ufficiali dell'Immigration Service schedavano tutti. C'era, tra quei 399 venuti dall'Italia umbertina a cavallo dei due secoli, anche un Umberto Bossi, 18 anni e 10 mesi il 12 dicembre del 1909, giorno del suo sbarco a New York dalla nave Lorraine, salpata da Le Havre in Francia. Il ragazzo aveva lasciato 40 giorni prima il suo paese, Fossato, forse Fossato di Vico in provincia di Perugia, oppure Fossato di Rodigo nel Mantovano. Lui non lo specificò, il suo controllore non lo scrisse. Dopo la quarantena, gli permisero di raggiungere Manhattan. Non si spinse molto più in là. Grazie all'efficiente Death Index, il registro dei decessi americano, sappiamo infatti che quell'Umberto Bossi morì a 78 anni, nel settembre del 1969 a Jessup nella contea di Lackawanna in Pennsylvania, qualche centinaio di chilometri ad ovest di New York. Probabilmente non era più tornato dovera nato. Non casualmente - almeno per i destini politici italiani - Cassano Magnago è stato anche, in anni recenti, luogo di forte immigrazione. Comune con meno di novemila abitanti nel 1951, quarantanni dopo ne aveva quasi ventunmila. Una crescita drammatica, dovuta esclusivamente all'esercito di immigrati veneti, pugliesi, siciliani tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei settanta.
Un'integrazione difficile eppure pienamente riuscita, se in consiglio comunale siedono ora signori che di cognome fanno Bilardo e Toto, di probabili origini siciliane, Lettieri e Oliva, campani, Poliseno, pugliese, Daniele, Mettifogo, Trevisol, Polato e Santinello, veneti, Maida, calabrese. Un melting pot, una pentola con dentro un po' di tutto, come spesso dicono gli americani. Una pentola ribollente che forse spaventò il piccolo Umberto, quello della futura Padania, incapace di adeguarsi a tanti veneti e calabresi dall'accento esotico che ogni anno gli piombavano in classe. Così come lo spaventano oggi quei tunisini di Lampedusa che parlano inglese e francese mica come i Bossi quasi tutti analfabeti che emigrarono in America e lasciano alle spalle una rivoluzione vinta con Facebook e Twitter. Gente di cui non fidarsi, dunque "fora da i ball".
Claudio Giua
5 aprile 2011
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